TERRE DI VENTO, FUOCO E SOLITUDINE
2014-2020
Nel 1432 i portoghesi approdarono sulle coste di Santa Maria con un vascello comandato da Gonzalo Velho, uno dei più fedeli esploratori di Enrico il Navigatore. Gaspar Frutuoso, sacerdote e rubricista di bordo, fu il primo ad annotare le sue impressioni. Nel suo taccuino descrisse quel luogo crudo, disabitato e dominato dai rapaci come “terre di vento, fuoco e solitudine”.
Ho visitato le Azzorre in tre viaggi diversi, a distanza di due anni l’uno dall’altro. Le ho perlustrate in lungo e in largo, ne ho fotografato gli aspri recessi e le colline erbose, registrando storie come un cronista, riprendendo non le persone da cui le sentivo ma ciò su cui si posavano i loro sguardi.
La natura di queste isole, vertici occidentali d’Europa, sa essere fertile e mansueta (tanto da farle assomigliare a dei giardini verdissimi) come ostile (tempeste, terremoti ed eruzioni sono quasi un’abitudine), e l’umanità che le abita è rarefatta, residuale. Contadini e pescatori, il cui orizzonte fisico e mentale si determina in pochi chilometri quadrati di terra circondati da oceano, convivono con un’esigua comunità di vecchi contrabbandieri in pensione, hippie sbarcati senza un soldo per aggiustare la barca e ripartire, narcotrafficanti in incognito, piloti che hanno smarrito la strada e marinai alla deriva che girano cercando lo scoglio giusto su cui approdare o contro cui rovinare definitivamente.
Fuori dalle taverne in cui i racconti si mescolano all’odore del gin e agli schiamazzi degli equipaggi appena sbarcati, battuti dal vento, ci sono i paesaggi silenziosi che l’impronta umana ha plasmato negli ultimi sei secoli. Se Gaspar Frutuoso li potesse vedere ora non li riconoscerebbe più da tanto sono cambiati. Una cosa, forse, è rimasta uguale: una specie di indefinita e struggente malinconia, come se questi brandelli di terra emersa fossero solo un’idea, l’illusione di un arcipelago appena sputato dalle profondità marine, oppure in procinto di inabissarsi da un momento all’altro.